La gentrificazione nella ricostruzione
Seminario con il sociologo Paolo Cardullo

Mercoledì 8 aprile, a modena, presso il Dipartimento di Economia Marco Biagi, si è svolto il seminario “Dall’analisi dei fenomeni di gentrification allo studio degli effetti del sisma: una prospettiva etnografica”. Il relatore era Paolo Cardullo, ricercatore della Goldsmiths University (Londra). All’incontro erano presenti il gruppo del progetto di ricerca Energie Sisma Emilia e gli studenti del corso di Analisi del territorio (Laurea magistrale in Economia e Politiche Pubbliche). Scopo del seminario era quello di allargare l’analisi sulla ricostruzione post sisma alle tematiche di dinamiche del territorio dal punto di vista della sociologia.

Cardullo ha così illustrato la sua presentazione, intitolata “Earthquake and the City: the people yet to come” (“il terremoto e la città: la gente che verrà”) per sottolineare il processo di sviluppo della società che avviene all’interno di un territorio. L’esposizione di Cardullo si è sviluppata su due temi principali: gli elementi fondamentali della “sociologia dei disastri” e il significato, con le sue implicazioni, del termine “gentrificazione” nelle trasformazioni urbane.

Con la locuzione “sociologia dei disastri” si intende il filone di studi, in crescita negli ultimi anni, delle calamità naturali, dei loro effetti e dei processi di ricostruzione. Per “disastro” si intende una calamità naturale che ha un effetto sociale. Esistono tre paradigmi per studiare i disastri.

Il primo considera i disastri come una distruzione, una rottura. Sotto questo aspetto, la società è vista come un meccanismo che funziona, finché arriva un disastro che la “rompe”. In questi senso, il disastro è un evento politico: si risolve, cioè, con un soggetto politico che decide come mettere a posto la società che si è “rotta”. Per chi vede il disastro come una rottura, la città è un contenitore.

La seconda corrente di pensiero viene definita “Actor-network theory” (Ant): il disastro viene diviso in tanti processi socio-tecnologici. Si fa a pezzi lo schema della ricostruzione, vedendo che è fatto di tante parti, e si pone l’accento sui diversi elementi. Secondo i sostenitori dell’action-network theory, la città è un’unità coerente. Il pregio più significativo di questa visione è che studiare la città secondo questo paradigma ha permesso di capire il suo funzionamento a livello micro. Il difetto più forte è che, lavorando in quest’ottica, manca la visione d’insieme.

Infine, secondo un terzo paradigma, il disastro è un’esagerazione dell’attualità: in questo senso, non farebbe altro che forzare i caratteri della vita normale. In altre parole, secondo questa corrente di pensiero il disastro non fa altro che mettere in evidenza e accelerare processi che sono già in corso. Adottando questo punto di vista, la conseguenza è che una città non è un contenitore di persone, ma una cosa viva che funziona in maniera anche contraddittoria tra le parti. In questo senso, bisogna prestare attenzione alle persone e al loro comportamento quotidiano, non solo alle azioni dei decision-makers. Chi considera il disastro come un’esagerazione dell’attualità vede la città come un divenire: la città, in questa visione, non è mai esclusivamente una cosa o l’altra. Essa è sempre sospesa fra il reale e l’immaginario, il materiale e il simbolico, l’affettività e la politica. C’è quindi una relazione fondamentale tra il modo di immaginare una città e il modo in cui viene trasformata.

Soprattutto alla luce di questa terza visione, è importante chiarire un neologismo sviluppatosi negli ultimi cinquant’anni: il termine inglese “gentrification“, italianizzato in “gentrificazione”. La gentrificazione, che potrebbe essere anche tradotta come “aristocratizzazione” della città, è un processo di cambiamento della popolazione di uno o più quartieri. Si tratta, soprattutto nei primi casi, dell’afflusso della classe media che “delocalizza” gli abitanti della classe operaia nelle periferie. Insomma, i vecchi inquilini di una zona si spostano per fare spazio ad altri più facoltosi.

Dopo alcuni anni di stagnazione lo studio del fenomeno acquisì nuova linfa, soprattutto grazie a uno studioso di nome Chris Hamnett, che lavorò sugli spostamenti della popolazione di Londra tra il 1961 e il 2001. Alla fine del periodo preso in esame, sostiene Hamnett, la classe operaia non esisteva più. Si cominciò così a vedere la gentrificazione come una manifestazione spaziale e sociale della transizione da un’economia industriale a un’economia post-industriale. In questo senso, non si parla più tanto di delocalizzazione delle persone, ma di sostituzione.

Una corrente di pensiero, esplicitata soprattutto nel lavoro del sociologo Peter Marcuse, ritiene che il processo di delocalizzazione si possa manifestare anche sotto il livello culturale: quando in un territorio cambiano i rapporti sociali e il tessuto urbano, organizzativo e sociale, certe zone diventano quasi automaticamente esclusive per determinate fasce della popolazione. Vi è poi chi vede la gentrificazione come un processo positivo, perché genererebbe un effetto “trickle-down”: in questo senso le abitudini e i comportamenti delle classi più abbienti o di determinati centri geografici si estenderebbero progressivamente alle classi meno abbienti e alle periferie.

Nell’ultima parte dell’esposizione prima del dibattito, Cardullo si è concentrato sull’analisi di alcune situazioni e sulle conseguenze dei disastri nei processi di gentrificazione. Il primo caso preso in analisi è stato quello de L’Aquila, vittima del terremoto del 2009. A seguito del sisma, sostiene il ricercatore, il capoluogo abruzzese sembra disperdersi in molte frazioni. Ora che sono stati avviati i primi cantieri ed è iniziata la ricostruzione, l’Istituto Gran Sasso prevede che verranno costruite molte abitazioni nuove, in un contesto nel quale già prima del sisma l’offerta di case era superiore alla domanda. Ciò porterà a un abbassamento nel prezzo delle abitazioni. Che conseguenze se ne possono trarre? Ci potrebbe essere uno stimolo all’investimento, come scommessa sulle rendite future, ma non va trascurato anche un altro aspetto: l’alta presenza di migranti provenienti da Paesi non facenti parte dell’Unione europea. In questo senso è interessante vedere cosa sta succedendo a Christchurch, la città neozelandese semidistrutta dai terremoti del 2010 e del 2011. Nonostante molti abitanti se ne siano andati, la popolazione è scesa solamente del 2 per cento. Questo è successo perché le persone in uscita sono state sostituite dai lavoratori stranieri che sono arrivati a Christchurch per la ricostruzione: la maggior parte di loro, proveniente dall’Irlanda, ha portato con sé la famiglia, prevedendo una durata dei lavori di circa dieci anni. Guardando il sisma dell’Emilia alla luce di questi due processi, salta all’occhio il caso di Mirandola: qui gli immigrati extracomunitari rappresentano il 32 per cento della popolazione, quasi un terzo. Molti di loro vivevano nei centri storici, che erano in condizioni di degrado, perché qui gli affitti erano più bassi. Che cosa succederà con la ricostruzione e la riqualificazione di quelle aree?